L’ultima lezione, sulla «Ginestra» (1993)

È l’ultima lezione tenuta da Binni, “a braccio”, nell’Aula I della Facoltà di Lettere della Sapienza di Roma, gremita di allievi e studenti, il 12 maggio 1993, in occasione dei suoi 80 anni; introdotta da Novella Bellucci, videoregistrata da Claudio Gamba, è stata poi trascritta da Marco Dondero e pubblicata in W. Binni, Lezioni leopardiane, a cura di N. Bellucci e M. Dondero, Firenze, La Nuova Italia, 1994. Il testo è stato poi raccolto in W. Binni, Poetica e poesia nella «Ginestra» di Giacomo Leopardi cit., anche con la riproduzione in DVD della registrazione video.

L’ULTIMA LEZIONE SULLA GINESTRA

Ringrazio molto Novella Bellucci, mia vecchia allieva, per le gentili parole che ha voluto spendere per me e soprattutto per avere, insieme a Giulio Ferroni, a Bianca Maria Frabotta e a molti altri miei allievi e colleghi, organizzato questo festeggiamento dei miei ottanta anni e anche per avermi sollecitato a questa “prova di forza” che affronto con una certa difficoltà. E voglio anche preliminarmente mandare un saluto a un caro amico e mio ideale allievo, come lui si è detto, e che è attualmente ammalato: Mario Costanzo, che ha sempre sostenuto la mia linea di interpretazione della poetica e addirittura ha seguitato a far adottare nella sua classe delle fotocopie del mio vecchio libro del ’63 (Poetica, critica e storia letteraria), piú volte ripubblicato, ma a un certo punto scomparso e nuovamente ripubblicato solo adesso da Le Lettere[1]; sicché sono grato a lui, lo stimo e desidero tanto che guarisca completamente[2].

Quanto al compito che io mi trovo qui a risolvere il piú rapidamente possibile, anzitutto è chiaro che La ginestra, come accennava già Novella Bellucci, per lungo tempo è stata sottovalutata e addirittura incompresa, stretta tra certe forme di purismo estetico in certi ambienti letterari del primo Novecento e la critica stessa del grande Croce, pieno sempre di grandi motivi, ma che di fronte al Leopardi, non per nulla proprio nel saggio in Poesia e non poesia, adopera fortemente questo criterio di distinzione tra ciò che è poetico e ciò che non è poetico[3] e insieme si pone in una tradizione che risale in parte anche al De Sanctis, per il quale la vera natura della poesia leopardiana è quella idillica. Sicché un’opera come La ginestra da un lato risultava troppo un «ragionamento in versi» e dall’altra era appunto fuori della possibilità di una qualificazione di poesia idillica.

Anche certe riprese del Pascoli nel discorso La ginestra[4] addolcivano rovinosamente questo canto cosí pieno di forza e cosí veramente capace di sfondare il suo tempo e giungere a coinvolgere anche persone lontane nel tempo, cosí come Leopardi pensava nel progettare una Lettera a un giovane del ventesimo secolo[5]. E certo anche da un punto di vista obbiettivo non si può non ricordare che proprio a opera mia fu promossa un’interpretazione (che muoveva addirittura da una tesina universitaria del ’34) che io scrissi sull’ultimo periodo della poesia leopardiana, con alcune idee già chiare, e che poi soprattutto prendeva corpo nel volume La nuova poetica leopardiana del 1947; un libro la cui tesi sostanzialmente consisteva nel sostenere che la poesia leopardiana non è unicamente idillica, ma (a parte alcuni importanti precedenti di poesia non idillica), nell’ultima sua fase, quella il cui culmine è La ginestra, è viceversa una poesia che ha altri caratteri, sorretta da una poetica che coinvolge posizioni ideologiche e posizioni anche di esperienza personale. E proprio quell’«esperienza di sé», su cui insisteva il suo pensiero, si attua in forme addirittura anti-idilliche, in forme “eroiche”, in forme da ultimi quartetti beethoveniani (lo dico non a caso, perché gli ultimi quartetti beethoveniani notoriamente sono stati per lunghissimo tempo non intesi, non valorizzati per quello che sono, tra le cose piú grandi che la musica abbia prodotto, per il pregiudizio di una armonia e melodia che non venivano lí ritrovate di fronte alle spezzature, le arcature, le forzature superbe che non piacevano).

Cosí in queste poesie, in questi ultimi canti si attua una poetica che anima quella che noi possiamo chiamare una “musica senza canto”: non tanto la melodia, non tanto l’armonia, non tanto il rasserenamento, ma viceversa queste forme di assoluta grande energia e queste nuove forme anche tecniche che vi vengono adoperate. Dunque il ’47 è l’anno della svolta della critica leopardiana, giova ricordarlo anche con un rapido accenno di omaggio a un amico purtroppo scomparso in questi giorni, Cesare Luporini, che col suo Leopardi progressivo, pur con angolature diverse, con divergenze e presentando uno schema del pensiero leopardiano naturalmente da un punto di vista filosofico di grande moralista, ne scopre, ne verifica il sostanziale esito materialistico e la grande forza propulsiva anche in senso civile.

Sicché appunto in questi saggi, in questa “svolta” venne provocata un’apertura, una comprensione, ripeto, della poesia dell’ultimo periodo che fa poi riflettere ulteriormente anche sulla precedente poesia. Io stesso qui, proprio in quest’aula, in quel corso che è stato piú volte ricordato anche recentemente dalla Bellucci, fra ’64 e ’67, riprendevo una lettura di tutto Leopardi che in un certo senso nel ’47 avevo trascurato, decidendo allora di non interpretare direttamente la zona chiamata “idillica”, quasi fosse da non toccare.

In questa nuova ripresa, che poi giunge a culminare attraverso l’introduzione a Tutte le opere di Leopardi del ’69 nella Protesta di Leopardi del ’73, viene individuata una radice unitaria, una radice di fondo eroico. Ora, non si deve enfatizzare la parola, ma piuttosto intenderla nel suo significato di morale eroica, del contrasto con il fato, della continua ribellione contro l’ordine delle cose, che sostanzialmente sempre è presente in Leopardi, naturalmente sviluppandosi in un complesso di modulazioni poetiche che variano nel variare appunto delle sue condizioni storiche e dello svolgersi del suo pensiero, fino ad arrivare a questo ultimo periodo e, entro l’ultimo periodo, a quella fase terminale che si può cosí rapidamente indicare come contrassegnata da un pensiero sull’importanza di una grande esperienza come è, egli dice, l’uscire da un’amore grande e appassionato (l’amore fiorentino per Fanny Targioni Tozzetti, quello che aveva ispirato i grandi canti dal Pensiero dominante in poi)[6].

Ultima fase appunto in cui Leopardi viene a svolgere (sono gli ultimi anni napoletani) una specie di forte polemica, una sorta di battaglia in versi, ma sempre veramente di grande realizzazione poetica, checché se ne dica o se ne sia detto. Cioè tra la Palinodia, I nuovi credenti e soprattutto i Paralipomeni della Batracomiomachia, che sono una delle opere piú grandi che Leopardi ha scritto e una delle opere piú fermentanti, veramente ribollenti di pensiero anche persino prepolitico e fin politico, in cui si affermano principi di tipo rivoluzionario come lo «stato franco», cioè le repubbliche popolari democratiche, che sviluppano modernamente i caratteri precipui delle repubbliche popolari antiche. Tutti i principi del pensiero della Restaurazione vengono aggrediti violentemente. Ed è soprattutto una battaglia che colpisce al fondo la “natura”, diventata ormai chiaramente, come si veniva in lui delineando da tempo, ostile, nemica dell’uomo, ma insieme soprattutto gli ideologi che sostenevano le posizioni antropocentriche, geocentriche, ottimistiche, del progresso puramente tecnologico, che è aggredito violentemente nella Palinodia: appunto l’ambiente fiorentino dell’«Antologia» con il suo ottimismo e falso progressismo illusorio, aggredito in forza di un pessimismo acre che giunge proprio quasi a un punto di non ritorno nella Palinodia con un’aggressione violenta anche al potere divino o della natura e a quello dell’uomo sull’uomo. Tutto questo porta a capire come e in quale ambito nasca La ginestra, questo capolavoro che, ormai non solo per me, è senz’altro il capolavoro conclusivo del lungo cammino leopardiano e in particolare di questa fase di poesia che veicola posizioni di estrema aggressività. E a proposito di questo capolavoro bisogna mettere bene in chiaro due cose: primo, che naturalmente questo altissimo riconoscimento non comporta di per sé l’adesione di chi legge questa grande poesia alle posizioni che essa veicola, come per Dante, che noi ammiriamo e sentiamo come il piú grande poeta italiano (per me insieme a Leopardi), ne sentiamo l’enorme spessore, la forza interiore e il vigore del pensiero, quella forza che ci ricarica potentemente pur non condividendo naturalmente le posizioni ideologiche che ne alimentano la poetica. E d’altra parte bisogna capire che per “leggere” La ginestra è necessario porsi in una posizione corretta di comprensione degli elementi personali, ideologici, delle posizioni di pensiero che la poetica leopardiana dell’ultimo periodo viene vigorosamente potenziando, commutandoli in direzione artistica con adeguate, geniali, nuove ardite forme, di cui il grande Leopardi nella Ginestra è fornitore[7].

Per capire poi questa poesia basti una delineazione breve, ma pur necessaria, della posizione a cui Leopardi è arrivato proprio al termine del suo percorso e al termine anche della sua vita. Vi è arrivato attraverso un lungo e tormentoso itinerario in cui alcune posizioni sembrano addirittura a un certo punto (se non se ne considerino tutte le mediazioni, cosa che qui non possiamo fare) capovolte: la “natura” era stata per lungo tempo il centro del sistema appunto “della natura e delle illusioni”, la natura che aveva fornito le generose illusioni, che dava la vita schietta, i sentimenti autentici e la poesia stessa e che era nemica della ragione calcolatrice, sterilizzante cosí che uccideva le passioni in poesia. Ma poi tale concetto, nello svolgimento e logoramento attraverso le Operette morali e nel forte pensiero dello Zibaldone, è prospettato in una posizione antitetica assoluta: l’inimicizia della natura con il suo carattere meccanico, indifferente, ostile, in base a una posizione, a un pensiero che è quello che il Leopardi chiama qui con precise parole: «il calle insino allora / dal risorto pensier segnato innanti» (vv. 54-55), cioè il pensiero che va soprattutto dalla filosofia rinascimentale-sperimentale fino al materialismo settecentesco a cui Leopardi, badate bene, porta arricchimenti e potenziamenti che non possono essere sottovalutati. Non si tratta di un’immediata ripresa di ciò che può venire dai testi dei materialisti come D’Holbach, Helvétius o La Mettrie, ma è qualcosa di piú, a cui io ho sempre pensato che contribuiscano anche elementi preromantici, romantici e “controromantici”, non piú solamente illuministici. E questo pensiero materialistico ha come sua arma la “ragione”, che ha cambiato segno, che è diventata la forza impugnando la quale si scopre la verità, si demistificano tutte le «superbe fole» (come sono chiamate nella Ginestra), cioè ogni credenza di tipo o religioso o idealistico-ottimistico. Cosí si arriva a quella verità che veramente è diventata ormai la mèta piú profonda del “progresso” per Leopardi, la verità che permette di conoscere ciò che per l’uomo, secondo Leopardi, è fondamentale conoscere («Nulla al ver detraendo», che è un verso della Ginestra): conoscere cioè qual è la reale situazione, la reale condizione dell’uomo e dell’universo e dell’uomo nell’universo: una condizione certamente di miseria, una condizione di caducità, una condizione di destinati alla morte e alla distruzione. Non sono solo le catastrofi naturali (come appunto quella che qui viene rappresentata), ma anche le ragioni biologiche della natura umana, la consunzione che le malattie e il degrado naturale dell’età operano su di noi e per cui ogni posizione di tipo provvidenzialistico e ottimistico viene scartata. E certamente questo è per Leopardi l’uomo che vive una condizione assolutamente infelice, «nato a perir, nutrito in pene» (v. 100), destinato alla morte e vivente in mezzo alle pene.

A questo punto però scatta, a mio avviso, del resto secondo tutta la mia interpretazione (sempre ho battuto su questo punto essenziale per le sue conseguenze in sede poetica), scatta, dicevo, l’abbrivo di una parte che potremmo dire “propositiva”, anche se questi termini vanno usati con estrema cautela perché certi limiti restano invalicabili, invincibili: il dolore, la morte, la caducità sono invincibili, la natura è sempre distruttrice e lo sarà sempre, continuerà sempre a esserlo. Ma certo, ripeto ancora, qui scatta un motivo che si può ritrovare anche attraverso certi filoni precedenti specie estraibili dallo Zibaldone (che adesso qui sarebbe troppo lungo individuare), ma certo soprattutto il motivo di quello che Leopardi individua come il «vero amore», cioè quella forza solidaristica, che cosí è certamente forza civile e che nasce proprio dal vincolo fra gli uomini nella loro lotta contro la natura.

La difesa contro la natura diventa un vincolo fra gli uomini e da questo vincolo sorge in loro questa esigenza e questo bisogno che egli chiama il «vero amore».

Sicché su queste basi leggeremo subito un brano della Ginestra, molto indicativo già per certi suoi aspetti poetici: su queste basi dico, su queste verità che sono da una parte tutte negative, tutte pessimistiche, ma certo per Leopardi profondamente “vere” e a lor modo promotrici di “vita”, non di rinuncia e di resa. Perché su questa acquisita coscienza che la condizione umana è assolutamente misera e d’altra parte su questa forte molla del «vero amore» si potrà creare un’alternativa di civiltà. E di civiltà si parla nella Ginestra in termini espliciti quando si dice anche in un altro passo che “solo” per questo pensiero illuministico-materialistico, per questo pensiero che per Leopardi è il cammino del vero progresso (anche se è un progresso che porta alla costatazione di una condizione di miseria) «per cui solo / si cresce in civiltà, che sola in meglio / guida i pubblici fati» (vv. 75-77). Badate bene, sono parole da meditare, sono parole che già di per sé rivelano la forza poetica di Leopardi, con questa ripetizione del «solo», «sola», questo ribattere, questo asseverare che, dirò cosí, asseconda lo snodo del pensiero e gli dà il suo vero spessore; spessore che non avrebbe senza la forza di queste forme da lui adoperate cosí energicamente. Ma, ripeto, Leopardi pensa a una possibilità di maggiore «civiltà» entro i limiti ferrei della condizione umana. Sicché vogliamo leggere (anche come esempio di un tipo di poesia che suscitava proprio dentro La ginestra le piú forti obbiezioni da parte della critica distinzionistica, fondata cioè sulla distinzione fra poesia e non poesia) il passo della terza strofa con il contrasto con l’intellettuale del primo Ottocento, seguace del pensiero della Restaurazione, che viene aggredito con sarcasmo e forza di disprezzo supremo, forza che è quella del pensiero, ma che si traduce in forza aggressiva della poesia e dei mezzi propri della poesia. E a un certo punto emerge, in netto contrasto, il profilo dell’uomo “leopardiano”, l’uomo “persuaso” che ha acquisito queste amare verità, che è portatore di queste verità; in un certo modo l’intellettuale come Leopardi lo avrebbe voluto e quale egli stesso si sentiva in prima persona, perché contribuisse cosí a una vera civiltà:

Nobil natura è quella

che a sollevar s’ardisce

gli occhi mortali incontra

al comun fato, e che con franca lingua,

nulla al ver detraendo,

confessa il mal che ci fu dato in sorte,

e il basso stato e frale;

quella che grande e forte

mostra se nel soffrir, né gli odii e l’ire

fraterne, ancor piú gravi

d’ogni altro danno, accresce

alle miserie sue, l’uomo incolpando

del suo dolor, ma dà la colpa a quella

che veramente è rea, che de’ mortali

madre è di parto e di voler matrigna.

Costei chiama inimica; e incontro a questa

congiunta esser pensando,

siccome è il vero, ed ordinata in pria

l’umana compagnia,

tutti fra se confederati estima

gli uomini, e tutti abbraccia

con vero amor, porgendo

valida e pronta ed aspettando aita

negli alterni perigli e nelle angosce

della guerra comune. Ed alle offese

dell’uomo armar la destra, e laccio porre

al vicino ed inciampo,

stolto crede cosí qual fora in campo

cinto d’oste contraria, in sul piú vivo

incalzar degli assalti,

gl’inimici obbliando, acerbe gare

imprender con gli amici,

e sparger fuga e fulminar col brando

infra i propri guerrieri. (vv. 111-144)

Sentite la forza dello snodo del pensiero cosí denso e tenete conto che non è solo «Nobil natura» l’uomo che osa guardare lucidamente il «comun fato», il fato e la natura, ma anche l’uomo, la persona che «grande e forte / mostra se nel soffrir». C’è una suprema forza di dignità in questo ultimo Leopardi e La ginestra è una grande lezione di dignità nel soffrire, nel sopportare «il mal che ci fu dato in sorte». E l’uomo leopardiano «con franca lingua» rivela la realtà delle cose senza toglier nulla a questa “acerba” verità, e non ne accresce stoltamente la miseria con le lotte fra gli uomini: «né gli odii e l’ire / fraterne [...] accresce / alle miserie sue», come egli afferma in un crescendo impetuoso e appassionato. E voi sentite certo la forza di un ritmo incalzante, come in un certo senso incalzante è lo snodo del pensiero, e questo impeto raggiunge persino toni entusiastici che non sono certamente convenzionali e il cui significato parafrasato potrebbe apparire anche prosastico e convenzionale, mentre tutta la sua forza viene data radicalmente proprio dallo spessore linguistico inerente, dalle forme che assume la poesia in questo brano e che, ripeto, trova d’altra parte equivalenti nella forza, in questo caso addirittura entusiastica, anche nella violenza, di aggressione alle stolte credenze e alle illusioni ingenue, o, peggio, interessate delle religioni (e dei detentori del potere). Come appunto avviene anche semplicemente in un breve passaggio, quando Leopardi parla nella strofa seconda del «Secol superbo e sciocco» che rinnega il pensiero «risorto» e dell’adulazione degli intellettuali del tempo a questa piega regressiva del pensiero della Restaurazione:

[...] Non io

Con tal vergogna scenderò sotterra;

Ma il disprezzo piuttosto che si serra

Di te nel petto mio,

Mostrato avrò quanto si possa aperto: [...] (vv. 63-67)

Vibra qui una profonda reazione totale della personalità leopardiana, e l’inarcamento del periodo va sentito anzitutto proprio nella sua forza poetica come un forte strappo musicale. E qui mi viene in mente il mio solito esempio beethoveniano che non è casuale, cosí come non è stato a caso che un musicologo come Massimo Mila abbia cercato relazioni persino nei “contenuti” tra la Nona sinfonia e La ginestra. E soprattutto di Beethoven penso sempre ai quartetti, da quello dell’op. 95 agli ultimi, che sono una prova inaudita e tale da non essere stata compresa che assai tardi. E io direi cosí che ciò vale anche nei confronti di quest’ultimo Leopardi, quando esperienze a lui contemporanee, ma di tutt’altra area culturale o diversamente successive, ne agevolarono la comprensione. Nel caso mio lo era certamente da tempo il grandissimo Hölderlin, lo era soprattutto il Montale degli Ossi di seppia, e quindi un’esperienza assai piú moderna: esperienze che furono ausilio essenziale a comprendere appunto l’ultima poetica leopardiana. Cioè meglio io avvertivo che questo degli ultimi canti leopardiani, in particolare della Ginestra, era un altro tipo di poesia rispetto a forme tradizionali e anticipava in qualche modo certe forme moderne piú tardi emerse. Cosí dicevo che questa pressione del pensiero, delle posizioni ideologiche del Leopardi non fa della Ginestra un documento prosastico, non si risolve, come si dice, in un puro “messaggio” senza spessore poetico. Anzi in un certo senso si deve affermare proprio che questo pensiero non avrebbe neppure la sua efficacia, la sua forza aggressiva, la sua forza costruttiva senza la sua realizzazione poetica, il suo potenziamento poetico, perché è cosí che avviene nella grande poesia: la potenza, le forze proprie della poesia, fondendosi dalle radici come mai altre volte era avvenuto nel Leopardi con il pensiero, insieme si integrano e potenziano lo stesso pensiero, come la poesia trae succo profondo dal pensiero. Cosí d’altra parte si comprende questa ricerca di nuovi mezzi tecnici e anche di nuovi effetti poetici, che sono tutt’altro che trascurati e sciatti (come apparvero a critici iperpuristici), e molto spesso questa poesia è stata sentita come un’opera non “rifinita” perché la si portava al paragone di un certo tipo di decoro classicistico e non se ne vedevano le ragioni interne.

Cosí la poesia potentemente vive, ha la possibilità di esplicare tutta questa sua novità e questa sua forza perché alimentata da questo vigoroso, saldo pensiero. In questo senso appunto va ben notata la forma eccezionalmente nuova di questa sterminata poesia svolta in lunghe strofe (quasi piú lasse che strofe) come tentacolari, avvolgenti e che poi a un certo punto, al loro termine, captano e fanno esplodere, deflagrare le verità che Leopardi vuole esprimere e imprimere nei lettori. Appunto questa enorme forza è anche impressiva e alimentata dal pensiero, ma unificata da questa forza ugualmente della poesia, la quale si potrebbe dire che è in qualche modo anch’essa una poesia “materialistica”, come materialistico è il pensiero di Leopardi.

Una poesia che nell’originale costruzione delle strofe attua ricerche molto originali. Non si tratta certo di trascuratezza il fatto che nelle frequenti rime interne vengono dislocate rime lontane, come richiamo di punti nodali nello stesso svolgimento del pensiero. Ma insieme si noti bene come questa poesia adopera un linguaggio fortemente “fisicizzato” nelle espressioni dei sentimenti e anche nella presentazione dei paesaggi. Certo il paesaggio vesuviano è presentato nella sua aridità, nel suo squallore reale, ma si va bene al di là della mimesi naturalistica e la sua carica dirompente si potenzia enormemente proprio con questo linguaggio, e ben si noti la stessa aggressività con cui il pensiero combatte l’idea della natura e con cui la poesia viene come scolpendo e insieme violentando, lacerando e mostrando la natura cosí scabra e scagliosa. Come avviene, ad esempio, anche nel finale della prima strofe dove entra in campo la ginestra (che compare direttamente solo nella prima e nella settima, cioè nell’ultima strofa) e diventa piú generalmente il simbolo poetico di quella parte del «vero amore» che è l’«altruismo». Nei pensieri dello Zibaldone si insiste a lungo sul fatto che l’«amor proprio», essenziale alla vita dell’uomo, senza di cui non c’è nulla di forte, di grande, di generoso, però si biforca o in amor proprio rivolto a se stessi, nel proprio interesse (cioè diventa quello che piú volte Leopardi chiama «pestifero egoismo») o viceversa, se rivolto agli altri, rivolto al pubblico bene, diventa l’«altruismo», cioè l’«eroismo». Perciò, dicevo, anche l’appellativo di “eroico” per la poesia della Ginestra non è un orpello retorico, ma è ben giustificabile in questo senso. E dicevo appunto come nella prima strofa compare il simbolo poetico, la ginestra, che però, ricordatevi bene, non copre tutto lo spazio di questa poesia. Al centro c’è soprattutto l’io pensante e poetante, c’è il protagonista sempre in campo, che perciò avrebbe potuto adoperare anche per la Ginestra la sua scelta della poesia «lirica», dunque soggettiva, espressione intera del poeta pensatore.

La prima strofe presenta subito la “ginestra” con i toni della sua bontà, della sua generosità («I danni altrui commiserando» e «d’afflitte fortune ognor compagna», vv. 35 e 16) e questi caratteri li ritroveremo in parte anche nell’ultima strofe in cui però la “ginestra” viene anche caricata di un paragone esplicito con l’uomo per concludere ugualmente con forza la poesia, viene caricata anche di una fierezza, di una dignità, di una lezione di dignità, in una strofe breve conclusiva in cui la figura della ginestra viene come ad acquisire i caratteri della fierezza, del contrasto con il fato, della “non resa” prima del tempo: una specie di commistione tra saggezza, misura, passione e pressione profonda, come è poi nel finale del canto in cui viene evocata la “ginestra” soprattutto perché si comporta cosí diversamente dall’uomo: «ma piú saggia, ma tanto / meno inferma dell’uom, quanto le frali / tue stirpi non credesti / o dal fato o da te fatte immortali» (vv. 314-317). Ma torniamo alla prima strofa e ricordiamo questi versi in cui il poeta, dopo avere evocato la ginestra come la vede adesso nella landa vesuviana e come l’ha vista già nella brulla campagna romana: «Or ti riveggo» (tra l’altro notate come questa poesia sia basata sempre sull’ora e sul qui, e cioè sul presente, sul presente piú che sul passato, e rivolta al futuro):

Or ti riveggo in questo suol, di tristi

lochi e dal mondo abbandonati amante,

e d’afflitte fortune ognor compagna.

Questi campi cosparsi

di ceneri infeconde, e ricoperti

dell’impietrata lava,

che sotto i passi al peregrin risona;

dove s’annida e si contorce al sole

la serpe, e dove al noto

cavernoso covil torna il coniglio; [...]. (vv. 14-23)

Sentite qui appunto questo linguaggio cosí fortemente “materialistico”, cosí denso, cosí aggrumato, persino inasprito da questi rari esseri viventi che sono còlti come nello spasimo della loro elementare, selvaggia vitalità e quasi repellenti: «dove s’annida e si contorce al sole / la serpe, e dove al noto / cavernoso covil torna il coniglio», con giochi di assonanze, di ritorni di fonemi che tutti contribuiscono in questa direzione. Mi accorgo che il tempo sta passando troppo rapidamente, mentre tanti altri particolari si dovrebbero notare in questa grande poesia: si pensi almeno, sempre dal punto di vista della sua eccezionale “novità”, al notturno pompeiano con il quadro delle rovine di Pompei nella notte, e ricordate appunto questi formidabili versi:

E nell’orror della secreta notte

per li vacui teatri,

per li templi deformi e per le rotte

case, ove i parti il pipistrello asconde,

come sinistra face

che per vòti palagi atra s’aggiri,

corre il baglior della funerea lava,

che di lontan per l’ombre

rosseggia e i lochi intorno intorno tinge. (vv. 280-288)

Notate bene la spregiudicatezza di cui vi parlavo che però è alimentata da un copioso ricavo anche di suggestioni, di riprese e di echi letterari: sono chiari qui echi “sepolcriani” come altrove echi delle poesie delle rovine, delle settecentesche poesie delle rovine. E nel brano della colata della lava immagini riprese dal Volney, dal Bettinelli ecc., ma adoperate però non a mo’ di intarsio, sibbene gettate cosí a piene mani nel magma ardente della pressione poetica, sicché non fanno macchia a sé, ma si fondono in maniera suprema. Per cui ripeto che quella della Ginestra non è poesia improvvisata, poesia trascurata, è poesia che ha richiesto anche una forte preparazione, una forte rinnovata tecnica, una forte somma di esperienze anche letterarie. E qui notate ancora che questo potenziamento delle rovine di Pompei, questo potenziamento fantastico cosí suggestivo è prodotto però tutto attraverso termini fisici. Notate come qualcosa di deformante, come una specie di poesia delle rovine “al secondo grado”, che proprio arriva alle forme piú intense: «le rotte / case, ove i parti il pipistrello asconde», che è l’altro essere vivente che compare sempre in questa chiave della natura attraverso elementi selvaggi, elementi appunto di una natura repellente: il pipistrello che nasconde i suoi «parti». Quindi è difficile tornare a operazioni di selezione, di distinzione dentro questa poesia. Questa poesia è, volendo passare a un paragone ovviamente suggestivo, un po’ come la colata lavica al centro descritta e che adesso terminando leggeremo: una colata lavica che può avere alla superficie ristagni, avvolgimenti, ma sotto cui preme sempre una forza che è del pensiero come della poesia, che preme e che fa scattare improvvise, fulminee impennate furibonde, dove appunto la poesia raggiunge veramente dei toni a mio avviso inauditi fino all’epoca in cui Leopardi la scrive. Aggiungiamo solamente come di fronte a questa rappresentazione cosí aspra, cosí dura della natura e persino dei pochi esseri viventi che vi compaiono, ci sia poi il passo del «villanello» in cui Leopardi non diventa piú simile alla “ginestra” in chiave languido-pascoliana, ma certamente fa sentire il suo amore, la sua compassione per questo essere, l’unico essere umano che si muove assieme alla sua famigliola in questa poesia e che è visto proprio nella sua sorte di sventura di fronte alla lava che può riprendere a precipitare e cosí devasterà il suo campo, il suo «picciol campo, / che gli fu dalla fame unico schermo» (vv. 264-265). E appunto con questa sua condizione di povertà, di miseria, di autenticità si precisa in figura qualcosa che il Leopardi aveva vissuto anche in tempi piú lontani (e adesso alimentati da questo senso piú compatto e piú civile): si pensi al finale di una lettera divenuta, a opera mia, famosa, la lettera romana del 20 febbraio 1823 per la visita al sepolcro del Tasso. Quel finale parlava appunto di voci, di canti, di una via poetica tra le filande, canti che provengono da lavoratori e da lavoratrici, da persone «la cui vita si fonda sul vero e non sul falso, cioè che vivono di travaglio e non d’intrigo, d’impostura e d’inganno»[8]. Parole che sono anche la spiegazione di quella leopardiana passione democratica, cosí profondamente democratica (e da questo punto di vista ha molta ragione Sebastiano Timpanaro quando parla del grande potenziale democratico dello stesso pensiero materialistico di Leopardi).

E veniamo alla lettura almeno di questa strofa quinta che potremmo anche chiamare la “parabola del formicaio”; adopero questa parola per ricordare un po’ quella specie di amara ma “buona novella” che cosí costituisce quasi un tono evangelico dentro questa grande poesia e che risale al celebre versetto giovanneo premesso dal Leopardi («E gli uomini vollero piuttosto / le tenebre che la luce»), capovolto naturalmente in senso del tutto opposto perché “la luce” è per Leopardi quella del pensiero materialistico e “le tenebre” sono quelle di ogni forma religiosa, di ogni forma provvidenzialistica e spiritualistico-ottimistica. Dunque, la “parabola del formicaio”; anche se, diversamente dalle parabole, essa porta poi una sua esplicita verità, una sua conclusione che cosí, al solito, esplode e si fa sentire e si imprime fortemente come una lezione attraverso la poesia della caduta di un piccolo pomo su un formicaio e il paragone con la lava, la colata lavica che viene a schiacciare cosí in un sol colpo le città e gli uomini:

Come d’arbor cadendo un picciol pomo,

cui là nel tardo autunno

maturità senz’altra forza atterra,

d’un popol di formiche i dolci alberghi,

cavati in molle gleba

con gran lavoro, e l’opre

e le ricchezze che adunate a prova

con lungo affaticar l’assidua gente

avea provvidamente al tempo estivo,

schiaccia, diserta e copre

in un punto; cosí d’alto piombando,

dall’utero tonante

scagliata al ciel profondo,

di ceneri e di pomici e di sassi

notte e ruina, infusa

di bollenti ruscelli,

o pel montano fianco

furiosa tra l’erba

di liquefatti massi

e di metalli e d’infocata arena

scendendo immensa piena,

le cittadi che il mar là su l’estremo

lido aspergea, confuse

e infranse e ricoperse

in pochi istanti: onde su quelle or pasce

la capra, e città nove

sorgon dall’altra banda, a cui sgabello

son le sepolte, e le prostrate mura

l’arduo monte al suo piè quasi calpesta.

Non ha natura al seme

dell’uom piú stima o cura

che alla formica: e se piú rara in quello

che nell’altra è la strage,

non avvien ciò d’altronde

fuor che l’uom sue prosapie ha men feconde. (vv. 202-236)

Sentite la forza trascinante: prima come un movimento piú lento e quasi incisivamente miniaturistico, con questo scavo nella «molle gleba», con l’operosa fatica delle formiche, che è prolungata tanto piú a preparare l’improvvisa caduta di questo piccolo pomo che, senza alcuna ragione se non la sua maturità, cade giú e distrugge immediatamente in un punto, in un istante l’opera e la vita delle formiche. Ciò che piú colpisce è la lentezza iniziale e poi l’improvvisa fulmineità. Cosí, la grande rappresentazione della colata lavica con questo ritmo, con la forza grave che prevale su tutto, che dà un senso a questa “parabola” da cui alla fine sgorga come conseguenza la verità dell’uomo fragile, caduco, sottoposto alla forza distruttrice della natura cosí come avviene per la formica, non senza un risvolto leggermente ironico: l’ironia compare anche nella Ginestra, ma piú spesso il sarcasmo, naturalmente.

Certo solo una lettura compiuta di tutta La ginestra, una lettura orientata criticamente, secondo certi parametri anche ideologici e, ripeto, solo una lettura intera, darebbe conto della grandezza di questa poesia e dello svolgersi “dinamico” di questo grande canto, sempre in un continuo movimento d’immagine e di pensiero. Naturalmente senza pretendere, l’ho già detto, che si debba aderire alle posizioni ideologiche di Leopardi, che certamente hanno sfondato in un certo senso per molti aspetti il proprio tempo e hanno potuto parlare anche a molti “giovani del secolo ventesimo”. Ma comunque, chiunque comprenda correttamente queste direzioni di pensiero e queste direzioni di poetica, non può uscire dalla lettura della Ginestra, dalla lettura intera di questa grande poesia, senza esserne profondamente coinvolto, magari turbato e senza provare quello che il grande Leopardi in un pensiero del ’23 dello Zibaldone diceva essere l’effetto della vera poesia (e badate bene, Leopardi non discettava tanto su cosa è poesia, ma cercava gli effetti della poesia). Cosí, dice Leopardi, la grande vera poesia «dee sommamente muovere e agitare», cioè sempre sommuovere, commuovere, essere una spinta profonda che coinvolge tutto l’essere e deve provocare «una tempesta, un impeto, un quasi gorgogliamento di passioni [...] e non già lasciar l’animo nostro in riposo e in calma»[9], che è l’opposto di quello che comunemente si suole e si soleva intendere col termine di poesia.


1 Cfr. W. Binni, Poetica, critica e storia letteraria, Bari, Laterza, 1963; Id., Poetica, critica e storia letteraria e altri scritti di metodologia, Firenze, Le Lettere, 1993.

2 Purtroppo tale mio auspicio non si è avverato. Mario Costanzo è ormai per me oggetto di amaro rimpianto.

3 Cfr. B. Croce, «Leopardi», in Poesia e non poesia. Note sulla letteratura europea del secolo decimonono, Bari, Laterza, 1923 (19647).

4 Cfr. G. Pascoli, «La ginestra» (1898), in Prose, Milano, Mondadori, pp. 86-106.

5 Cfr. Disegni letterari, IX, in Tutte le opere cit., I, p. 371.

6 Il pensiero cui mi riferisco è il pensiero LXXXII (Tutte le opere, I, pp. 238-239).

7 La ginestra si legge in Tutte le opere, I, pp. 42-45.

8 Tutte le opere, I, p. 1150.

9 Tutte le opere cit., II, p. 786.